Con l’annuncio del nuovo Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi 4, sbucato fuori un po’ dal nulla, Bandai Namco sembra essersi improvvisamente ricordata di aver lasciato a metà un discorso interrotto ben sedici anni fa. Nel frattempo, infatti, la serie videoludica legata al manga di Akira Toriyama se n’era andata un po’ “a spasso”, tra sperimentazioni e titoli un po’ meno riusciti o meno richiesti dal pubblico (soprattutto nell’epoca PS3/360), lanciandosi anche verso nuovi generi e verso il gaming online con i due Xenoverse, il secondo dei quali continua ad essere supportato ancora oggi. Nel 2018 è stata la volta di FighterZ, ma anche quanto partorito da Arc System Works, ossia un picchiaduro tecnico molto ben realizzato e che andava a colmare un vuoto nella serie, aveva poco a che spartire con ciò che le iterazioni videoludiche di Dragon Ball avevano proposto nei primi anni 2000.
Bandai, insomma, deve essersi resa conto che là fuori esisteva ed esiste ancora un’enorme fetta di pubblico che sognava in silenzio il ritorno di un brawler ad arene, ignorante e casinista, ed è proprio in quest’ottica che è nato il nuovo Budokai Tenkaichi: non a caso, il suo teaser trailer richiama nostalgicamente una TV a tubo catodico, segno della volontà di dare una forte continuità con il passato. Ma perché questi videogiochi, rimasti nel cuore di un’intera generazione, erano e sono considerati così speciali? Eccoci qui pronti a darvi una risposta (e, speriamo, mettervi addosso ancora più hype per il nuovo capitolo!).
La genesi di un genere
Prima di tutto, un po’ di storia. I Budokai Tenkaichi nacquero come una sorta di “costola” dei Dragon Ball Z: Budokai, picchiaduro a incontri che erano piuttosto popolari nei primi anni 2000 (sfidiamo chiunque a non averci giocato almeno una volta, anche su PSP – dove vennero pubblicati i due spin-off della serie, ovvero Shin Budokai). Questi ultimi, infatti, erano già di per sé dei prodotti moderatamente accessibili, che non raggiungevano la stratificazione dei loro simili più tecnici e complessi: a Bandai non ci volle molto per rendersi conto che lo stesso sistema di gioco, ulteriormente semplificato e adattato, poteva essere applicato anche a un picchiaduro 3D ad arene, che di lì a poco sarebbe diventato un genere estremamente popolare.
Gli ultimi anni della sesta generazione (quella PS2/Xbox), infatti, erano piuttosto particolari: si sentiva un po’ ovunque l’esigenza di realizzare videogiochi più grandi e contenutisticamente ricchi, e, visto che ci si trovava in un’epoca in cui i tie-in andavano per la maggiore, Dragon Ball non poteva certo sottrarsi a questa logica.
Se i Budokai vennero sviluppati da Dimps, tra le cui fila vi erano ex SNK ed anche qualche veterano della serie Street Fighter, i Budokai Tenkaichi finirono nelle mani di Spike (all’epoca ancora staccata da Chunsoft, con cui si sarebbe fusa nel 2012), la quale, in quegli anni, pose le basi tecniche e concettuali di un sistema di gioco che sarebbe poi stato alla base anche degli Ultimate Ninja Storm, ossia i videogiochi legati a Naruto, e sarebbe andato avanti per tanti anni.
Il primo elemento che consentì loro di spiccare sopra la media in quel periodo e di essere ricordati era, banalmente, l’essere usciti al momento giusto: in quegli anni, infatti, si verificò tutta una serie di coincidenze favorevoli, legate principalmente al raggiungimento di determinati step evolutivi a livello hardware e di specifiche conoscenze nello sviluppo e nel game design, che permisero loro di rimanere sulla cresta dell’onda anche per diverso tempo dopo il passaggio generazionale verso PlayStation 3 e Xbox 360.
Videogiochi non perfetti, ma a modo loro speciali
Un altro fattore indispensabile per il successo dei tre picchiaduro di Spike, anzi, quello principale, risiede nell’accessibilità di cui avevamo già accennato. I Budokai Tenkaichi erano davvero videogiochi per tutti, dato che padroneggiare il sistema di combattimento era semplicissimo. Bastava imparare poche combinazioni di tasti, e nell’arco di dieci minuti ci si sentiva vere e proprie divinità con in mano un pad, immedesimandosi nei panni di Goku, Vegeta o dell’eroe di turno.
Intendiamoci, si trattava di titoli tutt’altro che perfetti, eppure all’epoca, nel loro genere – quello dei picchiaduro ad arene – non era affatto semplice trovare di meglio. L’appartenenza a un universo così popolare, poi, rappresentava un vantaggio non da poco, anche perché ciò permise agli sviluppatori di inserire una quantità enorme di personaggi, puntando con decisione sulla quantità più che sulla qualità e sulla diversificazione: molti di essi erano semplici reskin, a volte addirittura più di due dello stesso eroe, con set di mosse molto simili, per non dire uguali. Ma anche in questo caso (e ciò è molto importante per capire il loro successo), bisogna ricordare che i Budokai Tenkaichi si rivolgevano ad un pubblico per cui quest’ultimo era un pregio, non un difetto.
Anche le modalità erano ridotte all’osso: la storia, per esempio, ripercorreva i vari archi narrativi di Dragon Ball Z un combattimento dopo l’altro, e non era chissà quanto approfondita: non c’era un filo narrativo a tenere insieme tutto, e tutto quel che si faceva era semplicemente recarsi ad affrontare il nemico di turno, con qualche aggiunta e correzione tra una campagna e l’altra delle tre. Per l’epoca, però, la cosa funzionava, e il senso di immedesimazione era molto forte, anche se la modalità in singolo non rappresentava il vero “cuore” dei tre Tenkaichi. Non del tutto, almeno.
Dal primo al terzo titolo della serie, come è facile intuire, cambiò relativamente poco: Spike si limitò ad aggiungere qualche modalità extra e ad arricchire a dismisura il roster dei personaggi, che superò ampiamente le 150 unità sbloccabili in Tenkaichi 3, andando però a svilire ulteriormente il bilanciamento (elemento già di per sé non tenuto granché in considerazione durante lo sviluppo). Nel terzo capitolo, in particolare, era possibile sbloccare e utilizzare Arale, proveniente dall’universo di Dr. Slump (altro manga di Toriyama): quest’ultima era un personaggio fortissimo, con cui in pochissimi nel roster potevano rivaleggiare.
Nonostante tutti i loro problemi, i tre Budokai Tenkaichi fondavano il loro gameplay su poche e semplici regole di design: mappe enormi e con un elevato tasso di distruttibilità, comandi facili da imparare, e, in generale, la capacità di dare enormi soddisfazioni anche soltanto nel caricare il ki del proprio personaggio prima di scagliare qualche devastante combinazione di attacchi. Erano titoli che riuscivano ad appagarvi anche se, magari, tutto quel che volevate in quel momento era farvi quattro risate con gli amici.
La cara vecchia co-op locale
Come facilmente intuibile, un altro elemento che contribuì in maniera quasi essenziale alla popolarità di questi amatissimi brawler ad arene stava proprio nella possibilità di giocarli in co-op locale, una modalità che ad oggi sta via via scomparendo quasi ovunque, ma che all’epoca – quando presente – andava ad arricchire non poco l’esperienza di gioco, soprattutto nei casi che meglio vi si prestavano, come quelli dei titoli calcistici e dei picchiaduro.
Gli anni tra il 2005 e il 2010 hanno visto una grande ondata di popolarità dei videogiochi con una spiccata componente co-op offline, che forse, a pensarci bene, è stata l’ultima: inutile dire che, in quel periodo, i Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi – come i FIFA, i PES o altri popolari brand – vennero giocati e apprezzati quasi di più nelle loro modalità multigiocatore in locale che in quelle per giocatori solitari. Questo è un elemento che, a nostro avviso, il quarto capitolo dovrebbe assolutamente riprendere e rendere centrale, anche per dare un forte segnale alla game industry.
Tra il pubblico, dopotutto – e noi ne siamo più che sicuri – esiste il desiderio di riscoprire questo tipo di esperienze anche in un genere che non sia, per esempio, quello dei simulatori sportivi. E ciò nonostante la settima e l’ottava generazione abbiano provato spesso e volentieri a convincerci del contrario, di quanto fosse bello giocare ognuno per conto suo a casa propria.
In tal senso non è difficile capire il perché di una scelta simile a livello commerciale: separare fisicamente le persone, senza invogliarle più a giocare insieme, fa sì che ognuna di loro si senta obbligata ad acquistare la propria copia personale, il che significa maggiori ricavi per i produttori, ma anche – lasciatecelo dire – un certo svilimento dell’aspetto sociale del videogioco come medium, che negli ultimi anni è andato sempre più scemando. L’unica a sottrarsi a questa logica con una certa insistenza, per fortuna, è stata Nintendo, che ancora oggi non rinuncia a implementare dinamiche da party game un po’ ovunque nella sua lineup, anche in titoli di grande rilievo.
Cosa ci hanno lasciato, e cosa (soprattutto) abbiamo perso oggi
A rivederli oggi, i tre Budokai Tenkaichi hanno un aspetto e una forma molto grezzi, anche perché rappresentavano la base di un sistema che si sarebbe evoluto per tanto tempo; la loro semplicità strutturale, a nostro modo di vedere, può però essere vista anche come un pregio rispetto a certe dinamiche che hanno regolato l’evoluzione dei videogiochi negli ultimi quindici anni, per esempio infilando a forza elementi open world o RPG anche in contesti dove questi ultimi non sono assolutamente necessari.
Quello che videogiochi simili possono insegnare, o, se vogliamo, far riscoprire – anche grazie al quarto episodio – è il valore della semplicità, il rendersi conto che non sempre aggiungere più ingredienti ad un piatto è la ricetta per renderlo più saporito. È vero anche che essi stessi dipingevano mondi che all’epoca sembravano giganteschi, ricchi di cose da fare e di personaggi da sbloccare, ma tutto sommato, a ben vedere, non era così, perché la loro enormità nei contenuti era bilanciata da un’ossatura di base che restava molto semplice, anche nel sistema di combattimento.
Il grande errore in cui molti game designer sono caduti, negli ultimi anni, è stato quello di pensare che i videogiochi dovessero essere arricchiti soprattutto in orizzontale più che in verticale, dando al giocatore ventimila alternative lungo il percorso che conduce alla fine: ciò ha fatto sì che ognuna di esse, specie se ripetuta, perdesse man mano di interesse, fino ad arrivare ad un punto di saturazione, tanto che oggi i migliori esponenti di molti generi sono anche quelli capaci di pensare (e far pensare chi impugna il pad) un po’ fuori dagli schemi.
Nel loro piccolo, i Budokai Tenkaichi si concentravano su poche, semplici idee, che per l’epoca erano vincenti, e davano ai giocatori la possibilità di sbizzarrirsi ad esplorarle, divertendosi soprattutto in compagnia. Elementi che, ad oggi, mentre tutti sono impegnati nella continua ricerca della complessità e della perfezione, noi non vediamo l’ora di ritrovare, tra una kamehameha e l’altra.