Come tanti di voi lì fuori, anche chi vi scrive ha potuto mettere le mani su Dead Island 2 solo il giorno del day one, 21 aprile 2023. Abbiamo aspettato questo videogioco per oltre 11 anni, un tempo che fa impallidire persino Cyberpunk 2077 e fa quasi concorrenza a veri e propri vaporware dell’industria, come lo sfortunato Duke Nukem Forever (per il quale sono trascorsi ben 14 anni dall’annuncio all’arrivo nei negozi). Tant’è che ad un certo punto Deep Silver sembrava aver gettato la spugna e non voler credere più nel progetto, salvo poi affidarsi agli inglesi di Dambuster Studios: questi ultimi, raccogliendo l’eredità di Yager Development e Sumo Digital, sono riusciti nell’impresa di riportare in vita un franchise che sembrava ormai morto, persino concettualmente superato, per via di quel Dying Light realizzato proprio da Techland, autrice dello stesso Dead Island.
Ebbene, dopo averci già giocato diverse ore, io sono qui a dirvi che non solo Dead Island 2 non è “superato” proprio per niente, e che anzi, di un videogioco del genere, fedelmente aggrappato a una filosofia proveniente da un’epoca in cui i single player erano spesso realizzati da meno persone e con molti meno soldi (ma anche con tante idee di design coraggiose), c’era dannatamente bisogno in questo periodo storico. Ma anche che la sola presenza sul mercato del titolo dello studio di Nottingham – con annesse reazioni contrastanti del pubblico – basta a dimostrare che i giocatori, al giorno d’oggi, non sono più capaci di divertirsi.
Si, avete capito bene: divertirsi. È per quello che i videogiochi sono nati, dopotutto. Ok, mi si potrebbe dire che nel corso dei decenni l’industria si sia evoluta a tal punto da riuscire ad offrire esperienze che vadano anche oltre il semplice divertimento (come se il divertimento dovesse limitarsi ad essere un concetto infantile per bambini, poi…), proprio come quando si guarda un film appassionante o si legge un bel libro. Però è anche vero che i videogiochi sono strutturati in maniera differente rispetto ad altri media: innanzitutto sono interattivi, e quindi, per loro stessa natura, devono intrattenere il giocatore. Dal punto di vista puramente meccanico, non sono altro che un’evoluzione (trasposta su schermi digitali) di giochi elettronici con elementi analogici, come per esempio i flipper, con l’aggiunta di un livello di complessità infinitamente maggiore.
Non sono qui a farvi una lezione sulla storia del medium, quindi passiamo avanti senza dilungarci troppo. Questa breve digressione, però, dovrebbe bastare a farvi intuire il problema di fondo che a mio avviso si è venuto a creare oggi: si sta un po’ perdendo di vista, da tutte le parti (giocatori, sviluppatori, persino stampa ed altri organi di settore), che uno dei principi fondanti del videogioco in quanto tale è la sua capacità di legare a sé il giocatore, di incuriosirlo con le sue meccaniche, di appassionarlo con la sua storia, di divertirlo o spaventarlo. In altre parole, di non fargli posare mai il pad e di fargli vivere un’esperienza degna di essere vissuta: questi discorsi dovrebbero essere fatti a monte di ogni discorso critico, non a posteriori, con quel “si, ma resta un videogioco mediocre” a cannibalizzare tutto il discorso.
Oggi, invece, sono sempre più le persone che nell’approcciarsi a un videogioco si sentono in dovere di farlo con lo spirito di un sommelier annoiato, analizzandolo a raggi X da tutte le angolazioni per scoprirne le imperfezioni e urlare allo scandalo, magari con voce amplificata tramite i social e con attorno altre grida di dissenso. Nessuno, e dico NESSUNO che si chieda mai: ma io mi sto divertendo in quel che faccio? Sto effettivamente giocando per divertirmi? O voglio solo astrarmi da me stesso e dare un giudizio, con una logica spesso forcaiola?
Non mi fraintendete: scopo di questo articolo non è né nascondere la polvere sotto al tappeto, né dirvi che dovete assolutamente comprare Dead Island 2 senza se e senza ma, perché ovviamente non è così. Premesso che ci ho giocato ancora troppo poco per esprimere un giudizio complessivo, quello che ho visto finora basta a capire che questo è uno di quei titoli che fanno esattamente quello che promettono: mettervi di fronte un’orda di zombi da combattere a mazzate, in un’ambientazione che vi permette di ucciderli in modi diversificati e a volte anche creativi, ma sempre con dosi esagerate di violenza e brutalità squisitamente fini a sé stesse. Quello che personalmente apprezzo della creatura di Dambuster e Deep Silver, e che ho compreso fin dalle settimane antecedenti al lancio, analizzando le anteprime dei siti specializzati e anche parlando con colleghi e amici che hanno avuto la possibilità di provarlo in anticipo, è la sua capacità di andare dritta al punto e centrare il bersaglio, consapevole fino in fondo di quel che vuole essere.
Che, per inciso, non significa che sia un prodotto privo di difetti: significa che fa semplicemente quel che deve. Poi che rimanga estremamente conservativo, poco ambizioso e in fortissima continuità con il predecessore, credo questi elementi siano sotto gli occhi di tutti, e gli impediscano di puntare a vette di eccellenza in senso assoluto. Eppure Dead Island 2 una cosa giusta la fa, ed è esattamente quella che gli si chiede: riportare nel 2023 quel tipo di esperienza, ovviamente migliorata, affinata e adattata all’ottava e alla nona generazione di console (non scordiamoci, infatti, che il capostipite era uscito su PlayStation 3 e Xbox 360).
Parliamo, nel complesso, di un videogioco non certo privo di sbavature, ma i cui obiettivi vanno circostanziati (e a mio avviso, per quel che ho visto finora, vengono raggiunti) nella sua intrinseca semplicità di titolo action senza troppi fronzoli. E qui casca l’asino e si viene a creare il paradosso di cui parlavamo prima, legato all’osservazione “critica al cubo”, o, se vogliamo, iper-critica dei difetti di una determinata opera, che spesso e volentieri fanno sì – come in una sorta di perversa visione a tunnel – che i suoi pregi vengano sminuiti o addirittura ignorati.
C’è una fastidiosa tendenza, nel mondo della critica di oggi, a giudicare un prodotto perlopiù in base a quel che non va, mettendone sotto il microscopio i problemi e dimenticandosi talvolta di fare lo stesso con i punti di forza, che spesso si tende a dare un po’ troppo per scontati. Ancor prima di condire il tutto con la propria visione delle cose (sacrosanta, se ben motivata), bisognerebbe sempre cercare di soppesare pregi e difetti nel modo corretto, tenendo ben presente che non tutti i videogiochi in uscita hanno la capacità – né l’intenzione – di essere rivoluzionari.
Voglio aprire un attimo una parentesi, che poi si ricollegherà alla conclusione. Per quanto mi riguarda, sto apprezzando più Dead Island 2 di Dying Light 2, e non voglio girarci troppo attorno. Così come ho amato il primo Dead Island, sono stato uno dei più grandi estimatori di Dying Light, che ho finito in tutte le salse, sbloccando anche il Trofeo di Platino su PlayStation 4. Ho atteso spasmodicamente i loro sequel per anni, con in mente una precisa idea su quel che dovessero rappresentare all’interno del loro genere: uno un survival horror dai toni cupi, in cui, senza voler lesinare qualche nota di umorismo, gettarsi a capofitto in una post-apocalisse più “alla Fallout”, l’altro una parodia di un B-movie, con uno stile vicino allo splatter di Robert Rodriguez o Quentin Tarantino e la vena quasi demenziale dei due film della serie Zombieland.
Ebbene, se in Dead Island sto bene o male ritrovando tutto ciò, il secondo Dying Light mi ha parecchio deluso in tal senso, visto che anch’esso ha provato a trasformarsi in una sorta di enorme parco giochi zombesco (che invece dovrebbe essere prerogativa dello stesso Dead Island), spingendo tantissimo su elementi di gameplay, dando maggior dinamismo al combat system e aggiungendo ulteriori elementi di complessità al level design, come le nuove opzioni di movimento che rendono il parkour più veloce e l’attraversamento della città più immediato.
Eppure tutto ciò non era affatto quel che io volevo da Dying Light, soprattutto considerato che quelle migliorie hanno contribuito a peggiorare non poco – a parere del sottoscritto – l’atmosfera e il “mood” generale, trasformatisi in qualcosa che non saprei definire e che non sa né di carne né di pesce, complice anche una storia più anonima del primo capitolo, che non è riuscita a catturarmi affatto. Benché io non lo ritenga nel complesso un gioco brutto o terribile, questa sua mancanza di caratteri identitari ben precisi e più lontani dal primo capitolo mi ha spinto a classificarlo come una delle mie più grandi delusioni personali dello scorso anno, e ad abbandonarlo subito dopo averlo finito e senza dedicarmi a completarlo al 100%. Cosa che, invece, sono piuttosto sicuro farò in Dead Island 2.
Ho fatto questo paragone non tanto per bocciare Dying Light 2 rispetto a Dead Island 2, quanto per rimarcare come l’identità di un videogioco sia qualcosa di importante, ne rappresenti le fondamenta ludiche, e che vada tenuta in conto anche quando poi lo si va ad analizzare dal punto di vista critico. Tutto ciò, poi, va confrontato con le aspettative personali: se, arrivati alla fine di questo articolo, vi interrogherete di più su quale tra Dead Island 2 e Dying Light 2 vi stia divertendo o vi abbia divertito, e risponderete “il primo”, sappiate che ci troviamo d’accordo. Se continuo col parallelismo, è in parte perché credo che i destini di questi due titoli siano strettamente interconnessi da una decina d’anni, in parte perché, volenti o nolenti, da oggi in poi si faranno concorrenza, visto che rientrano tra le produzioni più importanti tra i titoli d’azione a tema zombi.
Pur senza voler attribuire eccessivi meriti a nessuno, personalmente sono convinto che esperienze come quella proposta da Dead Island 2 siano importantissime nel mercato odierno. Non so voi, ma personalmente ogni tanto avverto il bisogno quasi fisiologico di tornare su un prodotto del genere, ad ammazzare zombi a profusione con il cervello mezzo staccato, senza sentirmi in colpa nel farlo, ma anzi divertendomi come un matto.
E in ciò, scusate se mi ripeto, credo il titolo di Dambuster – per come è pensato e confezionato – abbia pochi rivali. È concettualmente vecchio? È un prodotto della settima generazione trapiantato nella nona? Pazienza, ce ne faremo una ragione: quello che deve fare lo fa, e lo fa dannatamente bene. E qui faccio un appello rivolto a tutti voi: non sentitevi in colpa se ogni tanto vi viene voglia di giocare un videogioco simile, non reprimetevi, non omologatevi alla massa che vi dice che qualsiasi cosa sotto la media dell’8 faccia schifo, perché per voi quel qualcosa potrebbe valere molto di più (premesso che, per quanto ho visto finora, Dead Island 2 un 8 pieno se lo merita, o comunque rientra a pieno titolo in quell’intervallo di voto, ma questo è un altro discorso).
Quando discutete, anche animatamente, delle qualità, dei pregi e dei difetti di un determinato videogioco, abbiate il buonsenso di ammettere che non tutti possono (né vogliono) essere il nuovo Super Mario Bros., o il nuovo Ocarina of Time, e va benissimo così. Non bollate qualsiasi nuova uscita non sia innovativa e geniale automaticamente come qualcosa di già visto e quindi mediocre, e da qui ingiocabile: quando c’è la possibilità di farlo, cercate di vedere il bicchiere mezzo pieno, e, nel dare il giusto valore alle cose, non abbiate paura di aggiungere una connotazione personale, magari motivando (come ho fatto io) perché secondo voi un titolo valga più di un altro. Vi assicuro che, alla fine, sarete decisamente più soddisfatti, il continuo e spasmodico confronto tra voti e numerini non avrà più alcun significato, e l’intera discussione ne gioverà.
Sperando di essere stato chiaro ed esaustivo, e invitandovi a proseguire la discussione – anche scrivendomi sui social, se volete – vi saluto. Devo tornare a HELL-A, la mia Dani piange se non spacca un cranio zombi ogni cinque secondi.