Negli ultimi anni la direzione della serie Pokémon ha mostrato tanta voglia di fare, ma allo stesso tempo tanta confusione. Da una parte nella software house giapponese, fondata da Satoshi Tajiri nel 1989, è sempre viva la voglia di sperimentare. Dall’altra, il voler ridurre i tempi di produzione e creare a tutti i costi un titolo adatto a chiunque ha guastato le ottime idee del recente Leggende Pokémon: Arceus. In ogni caso, c’è stato un momento preciso, poco prima dell’inizio del declino, in cui i padri di Pokémon sono riusciti a sviluppare i videogiochi più maturi della serie: Pokémon Bianco e Nero. Quest’oggi li osserveremo meglio in una retrospettiva.
Approccio standard, sviluppi inaspettati
Facciamo un po’ di storia. Pokémon Bianco e Nero furono rilasciati il 18 settembre 2010 in Giappone, e ben sei mesi dopo nel resto del mondo. Sviluppati sotto la direzione di Junichi Masuda – che ne ha scritto anche la trama -, questi giochi narravano una storia inusuale per il brand. Al loro interno il videogiocatore impersonerà l’ormai celebre ragazzo che sogna di diventare un allenatore di Pokémon, e che vive quest’avventura insieme ai suoi amici. Ciò che discosterà Bianco e Nero dagli altri giochi della serie sarà il percorso che il nostro allenatore novizio vivrà nella sua strada verso la Lega.
Una riflessione importante
Ce ne accorgeremo dopo pochi passi nella regione di Unima – esteticamente ispirata allo stato di New York. In Bianco e Nero non ci troveremo infatti di fronte alla “classica” organizzazione criminale che ha intenzione di sfruttare Pokémon e umani per arricchirsi: la filosofia del Team Plasma sarà infatti quella di liberare dalla schiavitù umana tutti i celebri mostriciattoli collezionabili. Già solo questo concetto può spingere il giocatore a riflettere, non tanto sul gioco, ma su situazioni reali, tangibili, che fanno parte del nostro mondo. A ciò si aggiunge la figura di N, giovane e travagliato capo del Team, che ha perso fiducia nell’umanità, avendo visto nella sua vita solo violenze e maltrattamenti da parte di quest’ultima sui Pokémon.
Pittura in pixel
Lo storytelling non è l’unico comparto in cui Pokémon Bianco e Nero brillavano. A scapito del criticatissimo design della quinta generazione di Pocket Monsters – che, in ogni caso, ha presentato alcuni guizzi artistici interessanti -, questi giochi sono riusciti a spremere al massimo il poco performante hardware del Nintendo DS. Pokémon Bianco e Nero hanno portato all’apice il mix tra 2D e 3D iniziato con Diamante e Perla, lasciando tutti a bocca aperta per la quantità di dettagli nitidi e ispirati inserita in quel piccolissimo schermo.
Una storia che meritava di essere raccontata
Pokémon Bianco e Nero hanno fatto parlare molto di sé non solo per alcuni dubbi design, ma anche per la pubblicazione, a un paio d’anni dal loro rilascio, di ben due sequel diretti. Per la prima volta nella storia, Game Freak non si è limitata a creare un terzo titolo “aggiornamento”, sulla falsa riga di Smeraldo e Platino, bensì ha deciso di proseguire l’interessante storia dei precedenti titoli, aggiungendo numerose funzionalità ed esprimendo al massimo il potenziale estetico e narrativo di Unima. Un’aggiunta degna di nota (che citiamo perché sarebbe utile come non mai oggi) fu la possibilità di aumentare o diminuire la difficoltà, rendendo gli allenatori avversari più o meno preparati e intelligenti.
Saremo un po’ nostalgici, ma noi di gamesevolution.it sogniamo una Game Freak che ricordi cosa ha reso grandi questi titoli, e che riprenda a scrivere storie così emozionanti e videogiochi così divertenti. Scarlatto e Violetto sono alle porte, e la speranza è l’ultima a morire.