Per parlarvi di World of Horror, titolo indie dall’aspetto peculiare e dalla storia editoriale molto affascinante, mi tocca fare prima un passo indietro e raccontarvi di un ben noto mangaka giapponese di sessant’anni che si chiama Junji Ito e che con il progetto non ha nulla a che fare. Perlomeno non direttamente.
C’è questo racconto che mi piace particolarmente nella sterminata produzione horror di Ito, si chiama Palloncini appesi. Se non conoscete Ito queste poche pagine ve lo riassumono perfettamente: un giorno, senza alcun apparente motivo, il cielo si riempie di palloncini che in realtà sono teste fluttuanti con le sembianze di tutti i cittadini giapponesi. I palloncini danno la caccia alla loro controparte umana, afferrando al volo i poveri sventurati e portandoseli in cielo, uccidendoli.
Il racconto, che è lungo poche pagine, racchiude in breve ogni caratteristica peculiare della prosa di Ito: è grottesco, è amaro, è spaventoso, è inquietante, onirico e a suo modo divertente. Si chiude con uno scherzo di cattivo gusto, beffardo e senza speranza. E ovviamente il mistero dei palloncini resta e resterà tale. Ito ammise di averlo scritto ispirandosi a un sogno ricorrente che faceva quand’era ragazzo.
World of Horror, tra Junji Ito e Lovecraft
È difficile riuscire a ricalcare questo stile che mescola l’orrore ancestrale del sempre presente Lovecraft con un gusto per il ridicolo e il grottesco tipicamente giapponese. Sembrano due anime destinate a non parlarsi ma che nelle pagine di Junji Ito, abitate da donne bellissime che muoiono e tornano in vita, terribili fratelli che sembrano usciti da una parodia della famiglia Addams, e antichi orrori capaci di strapparti via il senno, dialogano alla grande. E probabilmente il segreto del successo di questo autore così amato è proprio in questo pout pourri dal gusto unico nato dalla commistione tra i manga di Kazuo Umezu e i film horror occidentali come L’esorcista e Non aprite quella porta, che il piccolo Ito guardava alla televisione quand’era ragazzino, nel pieno boom dell’occulto giapponese degli anni ‘70.
Oriente e occidente, insomma, che si fondono per dar vita a qualcosa che vada oltre le singole ispirazioni, con un equilibrio ben calibrato, autoriale, per questo impossibile da replicare meccanicamente. C’è un termine che serve a descrivere questo incontro: sincretismo culturale, un processo che ci ha regalato progetti come Resident Evil e Silent Hill, con canoni occidentali masticati e digeriti (alla grande, bisogna dirlo) da team orientali. A onor del vero, i giapponesi da questo punto di vista hanno un vero e proprio talento, azzardo io dovuto al massimo rispetto con cui trattano il materiale d’origine. Il contrario è un terno al lotto e la stessa saga di Silent Hill ci ha dimostrato come il processo inverso non sia una strada in discesa. Tutt’altro. Esistono però delle eccezioni felici com’era Silent Hill: Shattered Memories (per chiamare di nuovo in causa la saga) e com’è World of Horror.
Nella mente di un dentista
World of Horror ha una storia editoriale sulla quale vale la pena soffermarsi, proprio per via della affascinanti analogie con qualche nome grosso che ho già fatto all’interno del pezzo. Si tratta di un piccolissimo titolo indie, realizzato perlopiù da un singolo sviluppatore polacco, Paweł Koźmiński, che ci ha lavorato part time, nelle brevi finestre di tempo libero dalla sua attività principale: il dentista. Fermiamoci un attimo, perché questo particolare mi permette di raccontarvi una curiosa coincidenza.
Nel 1984, Junji Ito è un trentenne giapponese fresco di laurea e con un talento cristallino come fumettista. Partecipa e vince il Concorso Kazuo Umezu indetto dalla rivista horror Nemuki con un racconto dell’orrore che diventerà l’incipit di uno dei suoi grandi capolavori, Tomie. Durante i primi tre anni in cui cerca di sbarcare il lunario come mangaka, continua parallelamente a svolgere la sua attività principale: il dentista.
E se il talento di Ito sembra uscito fuori da un patto occulto con uno degli antichi dei di Lovecraft, la sua grande ispirazione occidentale, Koźmiński non è da meno e la sua epifania arriva direttamente da una delle sue storie preferite di Ito, la sua grande ispirazione orientale, The enigma of Amigara Fault. Il polacco vuole sviluppare un videogioco che ricordi le atmosfere dei manga dell’orrore, ma c’è un problema non da poco: Koźmiński non è di certo un grande programmatore né un grafico dotato di strumenti professionali. Così comincia a lavorare con ciò che ha pre-installato sul suo PC: Microsoft Paint. Finirà per realizzarci tutto il gioco. In un’intervista su Engadget ha dichiarato che ha trovato “rilassante” l’esperienza di disegnare su Paint tutti gli asset del suo gioco. Con l’aiuto di Cassandra Khaw, scrittrice horror malese che la scena indie conosce già per il suo bel lavoro su Where the Water Tastes like Wine, e le musiche chiptune di ArcOfDream e Qwesta, Koźmiński lancia nel 2020 sul mercato World of Horror, destinato a una lunghissima fase di early access ma già nel mirino di un pubblico ben specifico, che come in uno dei racconti che fanno da base all’opera, viene letteralmente ipnotizzato dal titolo.
Una natura fuori dagli schemi
Ma che gioco è World of Horror? Descriverlo in modo efficace è difficile, e procedere per analogie con titoli più famosi è letteralmente impossibile, perché non è che ce ne siano poi molti simili. Se avete avuto la fortuna di giocare a quel piccolo gioiello di 80 days, che trasformava il Giro del mondo in 80 giorni di Verne in una sorta di roguelike narrativo, allora siamo a cavallo, altrimenti immaginate World of Horror come una sorta di generatore casuale di storie dell’orrore che si risolvono con un sistema misto tra il gioco di ruolo a turni e l’avventura grafica. L’aspetto randomico è uno dei più interessanti della produzione: protagonista, nemici, situazioni e storie da affrontare vengono tutti scelti casualmente da un insieme di possibilità che rende ogni partita diversa dalle altre. Certo che il pool non è illimitato, e soprattutto le storie su cui indagare tendono a ripetersi dopo qualche partita, ma al loro interno si trovano sempre piccole variazioni o situazioni inaspettate che cambiano aspetti fondamentali della partita.
Si parte quindi dall’appartamento del protagonista o della protagonista, si deve indagare su 5 misteri che stanno infestando la cittadina giapponese di Shiokawa, nella periferia di Fukushima. Le storie sembrano uscite proprio dalle raccolte di racconti di Ito: la veglia funebre di un vecchio zio che non sapevi di avere, un gioco proibito che a scuola fa sparire i ragazzi che vi partecipano, un chiosco di ramen che ipnotizza gli avventori e li fa mangiare fino a scoppiare. Una ventina di situazioni grottesche e paradossali, scritte con gusto, inquietanti e mai banali. All’interno delle stesse il giocatore può esplorare, cercare indizi, potenziarsi, reclutare nuovi alleati, comprare armi, imparare incantesimi, il tutto senza cercare di sacrificare troppa energia e soprattutto troppa sanità mentale, i due parametri che una volta scesi a zero segnano il game over e, per la natura da roguelike del titolo, la necessità di ricominciare da capo.
Un affresco horror
L’altro aspetto affascinante e ostico della produzione è senz’altro la sua interfaccia: ipertrofica, ricchissima e criptica, anche un po’ fuori moda in un’epoca di semplificazione massima. World of Horror è un titolo pieno di menù e di sottomenù, di statistiche e di schede, di comandi inspiegabili e inspiegati, che vi toccherà capire da soli, perché il gioco non è granché generoso di tutorial. Il personaggio può eseguire qualche decina di azioni (può per esempio colpire con armi improvvisate, perdere il turno per cercare degli oggetti di offesa nei dintorni, può cercare di esorcizzare l’avversario) ma a volte è difficile raccapezzarsi in un sistema così poco user friendly. Che sia voluto o meno, forse è questo il più grande limite di una produzione che altrimenti riesce a far centro nel cuore di una certa nicchia di giocatori e di lettori molto precisa.
World of Horror è un titolo sperimentale, un generatore di incubi che a volte rimanda quasi più al classico librogame di Lupo Solitario piuttosto che ai videogiochi canonici. È una lettera d’amore a un certo tipo di letteratura, a un certo tipo di videogiocatore, a chi resta affascinato davanti al mistero ed è disposto a perdonargli qualche inesperienza. È anche però un’incredibile sfoggio di creatività e ambizione, un esempio perfetto di come quel viaggio in occidente che ci ha regalato saghe giapponesi di successo e incubi ricorrenti, che di fatto ha inventato un genere, possa dare frutti interessanti (anche se non del tutto maturi) anche affrontato al contrario.