Con la fine – anche – della serie animata de L’attacco dei Giganti, per noi lettori e spettatori è giunto il momento di tirare le somme. Sia chiaro, non ho intenzione di elogiare l’opera di Isayama nelle prossime righe: non basterebbe un intero articolo per esprimere quanto io ritenga narrativamente importante quest’opera nell’ambito dei media contemporanei.
Prima di continuare, però, un avviso: non proseguite nella lettura se non avete ancora recuperato tutti gli episodi della stagione appena conclusasi; continuate tranquilli, invece, se siete in pari con l’anime, ma non con il manga, dato che sarà assente qualsiasi tipo di riferimento nei confronti dell’opera cartacea. D’altronde, come suggerisce il titolo, il focus di questa riflessione è un altro.
Scala di grigi
Se c’è una cosa che questa prima parte di stagione conclusiva de L’Attacco dei Giganti ci ha voluto comunicare è l’importanza dell’empatia, dell’immedesimazione e della considerazione dei diversi punti di vista in una storia, di qualsiasi tipo essa sia ed a qualsiasi media essa appartenga: l’adattamento effettuato da Mappa (che ritengo abbia svolto un ottimo lavoro considerando le dimensioni dello studio, il tempo a disposizione e gli altri lavori sviluppati contemporaneamente, come Jujutsu Kaisen) dell’arco marleyano ci ha dimostrato che nel mondo creato da Isayama non esistono buoni o cattivi (l’ultimo dialogo tra Eren e Reiner a tal proposito è emblematico); esiste solo l’insensatezza e la crudeltà della guerra, una guerra in cui tutti ricoprono un ruolo e dalla quale nessuno può fuggire senza conseguenze.
Arrivati a questo punto della storia non c’è più tempo per le discussioni e per i compromessi; ogni possibile soluzione alternativa alla violenza è stata scartata ed ora, con tutte le tessere del puzzle al loro posto e tutti pezzi riposti sulla scacchiera, è giunto il momento di “continuare ad avanzare” fino alla fine della storia.
Gabi did nothing wrong
Prima di menzionare gli ovvi riferimenti storici inseriti nell’opera da Isayama, lasciatemi muovere una critica con lo scopo di generare una discussione con una specifica fetta del pubblico di AoT (un pubblico che, nonostante alcuni atteggiamenti dettati da un’aspettativa ormai alle stelle, si è rivelato essere in linea di massima molto più empatico e sensibile di quanto mi aspettassi); se guardando gli episodi di questa nuova stagione non siete riusciti a contenere il vostro odio per Gabi nemmeno per un secondo, ritengo che dobbiate analizzare meglio l’intento narrativo di Isayama.
Nonostante Gabi venga affiancata da un personaggio ben più saggio e riflessivo come Falco (probabilmente l’unico personaggio davvero positivo di tutto L’Attacco dei Giganti), il suo comportamento è assolutamente naturale e giustificabile; Gabi altro non è che una bambina sottoposta ad un insegnamento e ad un addestramento che non ammette dubbi, obiezioni o pause di riflessione, una bambina che reagisce come può agli eventi di Liberio… riflettendoci, Gabi altro non è che una versione femminile del “nostro” Eren, accompagnata, proprio come lui, da un calmo, riflessivo e saggio amico biondo.
Kapos
Detto questo, concentriamoci ora sui riferimenti storici e politici emersi a partire dalla “scoperta della cantina“, riferimenti che rappresentano in realtà la base narrativa su cui si regge tutto L’Attacco dei Giganti. Se analizziamo il punto di vista dei “guerrieri“, risulta quasi banale sottolineare il parallelo tra l’opera di Isayama e le atrocità vissute dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, a partire dalle discriminazioni economiche, ideologiche e religiose fino alle pratiche naziste messe in atto direttamente nei campi di concentramento.
Per quel che riguarda le fasce di riconoscimento, non credo ci sia nemmeno bisogno di approfondire il riferimento, mentre mi piacerebbe analizzare in maniera più dettagliata i meccanismi psicologici che regolano la mente degli eldiani di Liberio, eldiani che, a quanto pare (eccezion fatta per i restaurazionisti), hanno come unico scopo nella vita quello essere riconosciuti come marleyani onorari.
Questo tipo di dinamica è approfondita da Primo Levi nella sua testimonianza, nonché una delle opere più importanti della letteratura italiana; sto parlando, ovviamente, di Se questo è un uomo. Non si fa infatti fatica a paragonare i guerrieri eldiani ai kapos del capitolo IX, “I sommersi e i salvati”; i kapos erano infatti degli ebrei incaricati di controllare e denunciare gli altri “membri della loro razza”, ritrovandosi quindi ad essere probabilmente ancor più temuti ed odiati dei nazisti stessi.
Primo Levi descrive accuratamente questo fenomeno, senza mai lasciarsi coinvolgere dal fattore emotivo (l’assenza di qualsivoglia tipo di rancore o rabbia è un elemento che mi ha sempre lasciato a bocca aperta nelle testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto; credo sia il risultato del raggiungimento di un livello di saggezza e perdono che nessun altro essere umano nella storia della nostra specie sia mai riuscito a raggiungere), indicando i Kapo come vittime ancor più disperate della situazione infernale in cui si trovavano i prigionieri dei campi di concentramento, trovandosi infatti a dover in qualche modo decidere della vita e della morte dei loro fratelli solo per sperare di essere graziati o leggermente sollevati dal destino che gli spetterebbe normalmente… “splendere”, quindi, oscurando, sperando di venir considerati sì ebrei, ma ebrei diversi, non come gli altri (vi ricorda qualcosa?).
Per l’ennesima volta Isayama, ispirandosi alla storia dell’umanità, ci dimostra che nessun punto di vista è giusto, sbagliato, morale o immorale; ogni uomo ha come unico scopo quello di sopravvivere come può e, essendo l’essere umano l’animale che più è in grado di adattarsi alle circostanze, un determinato contesto può costringere un individuo ad optare per scelte decisamente non positive, ma tutt’altro che biasimabili.
The Last of Us, perdonare l’imperdonabile
Arrivati a questo punto apparirà evidente al pubblico videoludico dove questa riflessione voglia andare a parare in questo paragrafo finale: il videogioco che più si avvicina alle tematiche trattate da Shingeki no Kyojin è infatti, senza ombra di dubbio, The Last of Us Parte II, titolo che non solo ritengo rappresentare la vetta narrativa più alta mai raggiunta da un videogioco (così come ritengo L’Attacco dei Giganti rappresentare quella più alta mai raggiunta da un manga/anime, condividendola con Neon Genesis Evangelion), ma che ha generato lo stesso tipo di discussioni nate proprio in queste settimane dopo ogni nuovo episodio di AoT.
Le scelte narrative adottate da Naughty Dog non hanno infatti ottenuto l’approvazione da parte di una gran fetta di videogiocatori; c’è da dire che ciò che è accaduto con The Last of Us Parte II è il risultato di una “presa di posizione” (se così vogliamo chiamare il voler mettere alla prova la sensibilità del videogiocatore con delle scelte ideologiche “forti”) spoilerata poco prima dell’uscita, un episodio che ha causato delusione e rabbia nei fan e che è sfociato nella shitstorm e nel boicottaggio (le critiche maggiori provnnero infatti da parte di coloro che, in realtà, il titolo non lo provarono nemmeno).
Detto questo, il vortice di violenza e vendetta in cui si ritrovano Ellie ed Abby è causato proprio dall’incomunicabilità tra gli esseri umani, un’incomunicabilità resa ancor più forte dalla realtà in cui è ambientata l’opera di Naughty Dog; il non poter confrontarsi con l’altro a causa della violenza scaturita da sentimenti emersi come risultato dell’interesse personale e dell’assenza di un’attenta analisi dell’altro punto di vista è una tematica cara ad Isayama (basti pensare che l’idea che spinse l’autore giapponese a creare Shingeki no Kyojin nacque in seguito ad un episodio tanto divertente quanto terrificante da lui vissuto; un’aggressione da parte di un cliente ubriaco nell’internet point in cui lavorava, un evento che causò nell’autore una forte paura scaturita dall’impossibilità di comunicare con quella persona nonostante fosse anch’egli un essere umano, facendogli realizzare quanto la nostra specie sia al allo stesso tempo così familiare e così spaventosamente oscura) e non potevo fare a meno di sottolineare il parallelo tra le due opere.
Morale della favola, se c’è qualcosa che questo tipo di opere vogliono insegnarci, è di non giudicare mai un libro dalla copertina e di mettere sempre alla prova la nostra sensibilità, cercando di analizzare qualsiasi punto di vista prima di giungere ad una conclusione.